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La Peste di Atene

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“Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutt'i suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.”
(Inf X, 13-5)

Premessa del traduttore
Nell'anno scolastico 1977-'78, in programma d'esame per la maturità classica al Liceo Ginnasio “Arecco” di Genova, era stata inserita “La Peste di Atene” dal “De Rerum Natura” Libro VI di Lucrezio. Questa mia liberissima traduzione è quasi una riscrittura di quei versi che vanno dal 1138 al 1291 e non potrà essere utilizzata come versione dal latino per studenti. Tuttavia, potrebbe essere interessante scoprire se lo spirito dell'Autore vi sia rimasto impresso. Certamente impresso è il mio riconoscente ricordo del nostro insegnante di Latino, Professor Umberto Barabino, che ci diede le risorse narrative per affrontare le epidemie. Quarantadue anni dopo quell'esame, ho fatto la mia versione e, se non del suo risultato, spero nella riuscita del suo spirito. La descrizione clinica è influenzata dalla mia formazione medica e, quindi, alcuni termini non saranno di comprensione così comune. Tuttavia, lo scritto non è neppure del tutto adatto a riviste mediche.
Giuseppe Paolo Mazzarello – Genova, 28 maggio 2020
*
“La Peste di Atene” da Tito Lucrezio Caro (I secolo a. C.)
Nel 430 avanti Cristo, una malattia infettiva respiratoria e i suoi fumi riempirono di lutti i campi – quei campi che si coltivavano solo dove rendeva tanto – e svuotò le città di abitanti, e le strade con i loro grotteschi simulacri autovelox. Tutto questo accadde ad Atene – che aveva già abbastanza guai – ma anche e soprattutto altrove.
Si diceva venisse dall'Egitto interno: in realtà veniva da un paese molto più grosso e orientale; si diffuse senza trovare resistenza in cielo in terra e in mar e l'incubo prese forma di pandemia.
Ammalavano e morivano a caterve. Soffrivano di cefalea e di congiuntivite. Poi, la gola annerita
trasudava sangue; le ulcere in laringe provocavano disfonia; pure sanguinava la lingua, dolente, impotente, ruvida al tatto; almeno l'esempio fosse servito ai sopravvissuti a non dire troppe sciocchezze!
Alla fine subentravano complicazioni cardiache e non c'erano angioplastiche che tenessero.
Il fetore dell'alito denotava necrosi del cavo orale.
Infine, preceduto da intenso stato di prostrazione, si verificava il decesso. Prima, segni psichici
accompagnavano il decorso: ansia generalizzata e stato di agitazione lamentosa.
Movimenti involontari peggioravano la situazione generale. La cute non era calda e ciò stupiva
perché era diffusamente arrossata, come divorata da un sacro fuoco; nei tessuti sotto pelle, però,
la temperatura era alle stelle. Le ossa ne risentivano e lo stomaco sembrava una fornace.
Gli sventurati non volevano i vestiti addosso, ma sempre il vento e il freddo dell'inverno.
Capitava di vedere malati nudi, immersi in fiumi gelidi a placare l'arsura:
in the movie called “The Third Man” one really got to know it, in the classic period of the black market after the Second World War.
Ugualmente si gettavano a bocca aperta nei pozzi a bere molta acqua che, per la terribile sete, sembrava loro qualche goccia.
La malattia non dava requie a quei corpi spossati. Volgevano lo sguardo ardente e insonne ai medici
che non sapevano cosa fare. I segni erano funerei:
psiche angosciata e abbattuta, ciglia aggrottate, cipiglio rabbioso e sconvolto;
gli orecchi pativano acufeni. Insieme c'erano: respiro affannoso e frequente ma con lunghe pause,
collo imperlato di sudore, tosse secca con espettorato ematico scarso.
Le mani si contraevano, gli arti tremavano, dai piedi un brivido risaliva su per tutto il corpo.
Verso la fine le narici erano sottili, gli occhi infossati, le tempie incavate;
la punta del naso era affilata; la cute, tirata sulla fronte, era fredda e dura intorno alla bocca.
Poco dopo, tutto il corpo s'irrigidiva. In genere in ottava giornata di malattia, allo spuntare del sole, rendevano la vita. In caso di sopravvivenza, i malcapitati presentavano ulcere e melena;
solo tardavano a morire, accompagnati da cefalea e rinorrea ematica, come se dal naso defluisse tutta l'energia del corpo. Se qualcuno non perdeva sangue, aveva tuttavia sepsi manifesta
nel sistema nervoso, negli arti e finanche nei genitali. Tutti avevano gran paura della morte:
alcuni sopravvivevano ciechi, altri dopo essersi mutilati. Altri ancora, perfino, perdevano
la coscienza dell'io. I cadaveri erano così contaminati che neppure uccelli e fiere
se ne cibavano: infatti, se li assaggiavano, morivano.
Veramente, uccelli e fiere non si facevano neppure vedere.
Solo i fedeli cani condividevano per intero la sorte dei loro padroni.
I funerali erano celebrati alla spicciolata. La terapia era indefinita: quello che ad alcuni giovava,
ad altri accelerava il decesso. Era particolarmente scoraggiante che l'insorgere della malattia
fosse percepito come annuncio di condanna a morte: sentirlo e morire era tutt'uno.
Il contagio serpeggiava come in un gregge o in una mandria.
Vi era chi non prestava aiuto ai malati per non contagiarsi, ma questo non bastava
perché di lì a poco lui stesso provava cosa volesse dire morire in stato di abbandono.
Vi era chi invece non era insensibile alle invocazioni dei sofferenti e, in questo caso, conosceva la morte per fatica oltre che per contagio; e tuttavia era un uomo migliore.
Pastori, mandriani e agricoltori, un tempo vigorosi, languivano ora nelle loro capanne, morituri per miseria oltre che per malattia. Non era insolito che i genitori finissero sopra i figli morti,
o viceversa.
Così aumentando il contagio, i contadini si riversavano in città dove, nelle case e nelle piazze, morivano a mucchi. Molti soffocavano bevendo troppo avidamente alle fontane; altrettanti, prossimi alla fine, nelle vie e nelle piazze davano spettacolo dei loro corpi sporchi, piagati e ricoperti di cenci.
I sacrestani – specie in via d'estinzione come quella dei loro datori di lavoro – avevano lasciato entrare nei templi i disperati e ora se li ritrovavano cadaveri. Questi ultimi, sopraffatti dai dispiaceri, non badavano al culto – anche prima non è che ci badassero molto – nonostante il bisogno di salvarsi l'anima premesse con la massima urgenza.
Si seppellivano i parenti dove capitava e come si poteva.
Si era giunti al punto di occupare per i propri congiunti i roghi crematori preparati per altri, un po' per la miseria e un po' per fare presto, anche facendo a botte. Gli smartphone erano a terra e le app non servivano più a niente.

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